Gli albori: ARPANET
Sono trascorsi quasi sessant’anni dall’agosto del 1962, quando l’informatico e psicologo statunitense Joseph Licklider inserisce fra le sue ipotesi di lavoro la realizzazione di una “rete intergalattica di computer”. Un’idea, almeno in apparenza, alquanto visionaria ed enigmatica, ma che in verità costituisce il primo embrione concettuale di quello che oggi, per tutti, è semplicemente Internet. Fino a quel momento, i computer non sono mai stati associati alla comunicazione: il loro compito, infatti, è limitato allo svolgimento di complessi calcoli matematici.
Tre anni dopo un altro ricercatore, Lawrence Roberts, dà continuità agli studi condotti da Licklider presso l’Information Processing Techniques Office, uno dei dipartimenti dell’agenzia governativa ARPA – Advanced Research Projects Agency – creata nel 1957 da Dwight David Eisenhower. A spingere per proseguirne lo sviluppo è soprattutto il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, che intende usarla per scopi militari e contrastare i progressi scientifici dell’Unione Sovietica. I russi, infatti, nel 1957 – in piena Guerra Fredda – hanno vinto la corsa alla spazio lanciando il satellite Sputnik 1. Nel 1967 Roberts teorizza quella che sarà chiamata ARPANET – Advanced Research Projects Agency NETwork –, integrando le sue ricerche con quelle di altri tre scienziati, Leonard Kleinrock, Paul Baran e Donald Davies, i quali riescono a trovare il modi di trasmettere i dati sulla nascente rete.
L’anno seguente una piccola azienda, la BBN – Bolt, Beranek & Newman Inc. – si aggiudica il bando per la costruzione degli IMP – Interface Message Processor, antesignani dei moderni router – che avrebbero dovuto “dialogare” tra loro inviando pacchetti di dati. Alle 22.30 del 29 ottobre 1969, l’IMP della University of California di Los Angeles e quello dello Stanford Research Institute si scambiano il primo messaggio su ARPANET. Il messaggio viene inviato da Charley Kline, studente di programmazione della UCLA. Nello stesso anno vengono aggiunti alla rete altri due nodi, uno presso la University of California di Santa Barbara e un altro alla University of Utah. Nel 1972 il funzionamento di ARPANET è mostrato a Washington DC, mentre l’anno prima Ray Tomlinson invia la prima email.
L’obiettivo successivo diventa connettere ARPANET con le altri reti che si vanno sviluppando – Alohanet, Satnet, Fidonet per citarne alcune –, ma per farle comunicare tra loro è necessario creare un linguaggio comune. Così nel 1973 gli ingegneri Vinton Cerf e Bob Kahn definiscono lo standard di comunicazione TCP dal quale viene derivato il protocollo TCP/IP, che inizierà ad essere usato dieci anni più tardi. Nel 1985 nasce la parola Internet che deriva, appunto, da INTERconnected NETworks. Quasi contemporaneamente, il Dipartimento di Difesa inizia ad abbandonare il progetto originario per sviluppare un proprio sistema di comunicazione protetto denominato MILNET, ma ARPANET viene utilizzata per connettere la rete dei supercomputer delle università americane.
Web 1.0 e marketing 1.0
Queste reti “primordiali” non consentono un utilizzo dei computer come quello che conosciamo attualmente: il loro scopo principale è il collegamento fra macchine. Non esistono ancora, ad esempio, i web browser. La svolta avviene negli anni Novanta, quando un ricercatore britannico del CERN di Ginevra, Tim Berners-Lee, lavora ad un sistema che consenta agli scienziati di accedere dai propri computer a tutte le informazioni presenti all’interno della grande quantità di macchine del laboratorio. Berners-Lee mette così a punto gli standard tecnologici necessari per declinare la sua idea di un world wide web in grado di unire i protocolli TCP e DNS al concetto di ipertesto:
- il protocollo di comunicazione HTTP;
- l’HTML, cioè il linguaggio di sviluppo ipertestuale;
- un programma cliente composto da un browser (Nexius);
- un editor per le modifiche, mediante i quali gli utenti possono creare e visualizzare dei file HTML.
Il 6 agosto 1991 viene lanciato il primo sito web della storia, e dal 30 aprile 1993 il CERN dichiara che il World Wide Web è un ambiente di pubblico dominio libero e gratuito. È in questa data che viene comunemente individuato l’avvio del web 1.0. Come afferma lo stesso Berners-Lee, questo primo step evolutivo del web è di tipo cognitivo e chiamato read-only web: il web 1.0 ha come tratto distintivo, infatti, la staticità. I siti web sono realizzati in un semplice linguaggio HTML e aggiornati raramente. La quantità di published content è nettamente superiore rispetto agli user generated content: si tratta di un web da intendere come rete di informazioni, un luogo dove stabilire una presenza online e pubblicare contenuti multimediali come testi, qualche immagine, raramente audio e video, accessibili da chiunque abbia un computer e una connessione ad internet, in ogni momento della giornata. Tali informazioni, tuttavia, possono solo essere lette e non forniscono agli utenti la possibilità di interagire. Le pagine web, inoltre, possono essere solo consultate e trovate mediante i motori di ricerca. Nel 1990 nasce ALIWEB – Archie Like Indexing on the Web –, il primo motore di ricerca della storia, nel 1998 fu la volta di Google. L’accessibilità, tuttavia, è fortemente limitata da connessioni dial-up, fatturate a tempo, che supportano bande di larghezza molto limitata (56k). Inoltre, in questa prima fase, la creazione e la modifica dei siti è riservata a persone specializzate, i webmaster.
La mono-direzionalità del web si riflette anche negli ambiti del marketing, che si trova per la prima volta ad interagire con le reti. Contemporaneamente al web 1.0, infatti, prende forma il digital marketing, termine usato per la prima volta negli anni Novanta. Fino ad allora, la comunicazione è stata per lo più top-down, dall’azienda ai consumatori, e viene veicolata da mezzi tradizionali, come radio, stampa e in particolare la televisione; l’opinione dei clienti non è ritenuta una variabile fondamentale e la visione aziendale è per lo più limitata al breve termine. Tuttavia, con il passare degli anni, si comprende che la conoscenza e il soddisfacimento dei bisogni dei consumatori, nonché l’instaurazione di una relazione con essi per poter ideare il miglior prodotto possibile, è la vera chiave per il successo. L’approccio del marketing 1.0 rimane, comunque, ancora prevalentemente basato sulle “4 P” del marketing mix, elaborate da Jerome McCarthy negli anni Sessanta.
Con il web 1.0 nascono i primi cataloghi online, sebbene in forma statica: una sorta di siti-brochure che presentano prodotti e materiale di consumo. La strategia si basa sullo stickiness, cioè sul tenere “incollati” i potenziali clienti incollati allo schermo il più tempo possibile su un sito web, abbinata a un rudimentale digital advertising mediante banner inseriti nei siti. Il primo banner cliccabile viene pubblicato nel 1993, ed è questo l’avvenimento con il quale si indica generalmente l’inizio dell’era del digital marketing. Nello stesso anno nasce Yahoo, e verso la metà degli anni Novanta vengono usati per la prima volta i termini SEO – Search Engine Optimization – che indica una serie di tecniche per migliorare il posizionamento di un determinato sito web all’interno dei vari motori di ricerca, e SEM – Search Engine Marketing.
L’evento più rilevante, tuttavia, di questa fase è la nascita dell’e-commerce e di quelle aziende che poi ne diventeranno i player principali. Il primo acquisto tramite una piattaforma di e-commerce viene effettuato nel 1994 dall’imprenditore Dan Kohn, che acquista il cd Ten Summoner’s Tales di Sting mediante il portale Net Market al costo di 12,48 dollari. Il 5 luglio 1994 Jeff Bezos fonda Amazon e l’anno seguente spedisce – dal suo garage – il primo libro venduto su amazon.com. Nel settembre dello stesso anno nasce anche eBay, e verso la fine degli anni Novanta vede la luce Paypal, un servizio per effettuare pagamenti online. In Italia, il primo acquisto online è datato 3 giugno 1998, sul sito IBS.it: da un utente della California viene comprato il libro “La concessione del telefono” di Andrea Camilleri. Nello stesso anno lancia i propri servizi VMware, azienda pioniera nella virtualizzazione, che sarà fondamentale per lo sviluppo dei servizi cloud negli anni seguenti.
Web 2.0 e marketing 2.0
L’espressione web 2.0 venne coniata da Dale Dougherty – vice-presidente della O’Reilly Media – nel 2004 nel corso di una sessione di brainstorming dedicata alla rilevanza sempre maggiore del web nella vita quotidiana. Come la precedente, anche questa generazione utilizzò un’infrastruttura di rete basata sul protocollo TCP/IP, e l’ipertesto rimase il concetto base delle relazioni i contenuti. Tuttavia, le differenze tra il web 1.0 e il web 2.0 sono rilevanti.
In primo luogo, cambia l’approccio mediante il quale gli utenti si rivolgono al web: non più una piattaforma di sola consultazione ma anche partecipazione, collaborazione, aggregazione. Termina così l’era del read only web e iniziò quella del read/write web: dalla staticità all’interazione. In secondo luogo, il web 2.0 è people-centric: gli utenti diventano soggetti attivi che partecipano alle dinamiche di modifica del web. L’era del web riservata agli specialisti è sostanzialmente finita: anche utenti non esperti possono creare contenuti e applicazioni senza costi e condividerli anche con altri utenti, aziende comprese. Questo è reso possibile grazie alla creazione di nuovi standard tecnologici, strumenti di sviluppo e linguaggi di programmazione, come Ajax, Javascript, Cascading Style Sheets (CSS), Document Object Model (DOM), Extensible HTML (XHTML), Adobe Flash. Tali soluzioni hanno consentito di innovare il modo di intendere l’operatività delle applicazioni, superando il modello basato sul paradigma richiesta-risposta e offrendo così una radicale modifica di come l’informazione viene creata, resa disponibile, ricercata e comunicata.
Inoltre, i contenuti generati dagli utenti – gli User Generated Content – consentono il passaggio da una interazione mono-direzionale (one-to-many) a una bi-direzionale (many-to-many), dando il via ad un inedito processo di democratizzazione dell’informazione. Gli utenti non sono più semplici fruitori, ma editori. Il volume dei commenti – non più solo delle visite ad un sito web – ne indica la popolarità e ne misura il livello di coinvolgimento degli utenti. Mediante le tecnologie di syndication – RSS, Atom, tagging – chi realizza contenuti li può rendere fruibili non solo sul proprio sito, ma anche su altri canali.
Con il web 2.0 inizia la rivoluzione del cloud, che viene concepito non solo come un’infrastruttura esterna destinata all’archiviazione – infrastructure as a service – ma come programmi che non risiedono più sul computer proprietario, ma su server remoti, utilizzabili dagli utenti collegandosi a internet – software as a service. Nel 2004 Google lancia Gmail, il servizio di mail basato sul cloud destinato diventare il più diffuso nel mondo, e nel 2006 Amazon lancia Web Services, una suite con una serie di servizi cloud-based.
Strettamente collegati al web 2.0 sono i social media, che muovono i primi passi proprio in questo periodo, e che risultano decisivi per la diffusione degli user generated content. È possibile catalogarli in diverse categorie:
- Collaborative projects. Rappresentano il classico esempio di creazione simultanea di contenuti da parte di numerosi utenti finali, e possono essere divisi in due sottogruppi: wiki – come Wikipedia – che ha come idea di base la possibilità da parte degli utenti di leggere e apportare modifiche ai contenuti, in modo tale da arricchire la conoscenza e correggere eventuali errori; e i siti di social bookmarking, cioè siti “segnalibri” – come Reddit e Pinterest – mediante i quali gli utenti condividono elementi come pagine web, articoli, immagini e video. Questa tipologia ha diffuso la pratica del social tagging, che consente agli utenti di trovare dei contenuti “taggati” da altri cercando uno specifico tag, ma anche di utilizzare tag creati da altri.
- Blog. Nelle prime fasi, è presente già dalla fine degli anni Novanta ed è un diario personale, dove è possibili pubblicare svariati contenuti, detti post: notizie in merito alla propria vita privata, news divulgate con stampo giornalistico in merito a determinate tematiche, link diretti ad altri siti o media, ma anche focalizzati su singole tipologie di contenuto, come audio (podcast), video (vlog), fotografia (fotoblog). Vengono introdotti i permanent links (permalinks), un tipo di url che identifica ogni singolo post e che cambia ogni qualvolta viene modificato, e i blogrolls, una lista di blog di interesse del blogger.
- Content communities. Sono comunità di utenti che condividono determinate tipologie di contenuti, come immagini (Flickr, Instagram), video (Youtube), presentazioni PowerPoint (Slideshare). I virtual worlds, invece, sono piattaforme che replicano un ambiente tridimensionale nel quale gli utenti hanno la possibilità di interagire mediante la creazione di avatar digitali personalizzabili.
- Social network sites. Sono ambienti digitali dove le persone, che hanno interessi o necessità comuni, si ritrovano per comunicare, incontrarsi e condividere informazioni. Hanno quattro elementi in comune: 1) la costruzione di un profilo pubblico semi-pubblico dove inserire informazioni personali; 2) la creazione di una lista di utenti con i quali instaurare una connessione; 3) la visualizzazione completa della lista di contatti di altri utenti; 4) la presenza di funzioni che consentono la comunicazione tra utenti in modalità asincrona e sincrona, come i commenti ai contenuti degli amici e la messaggistica via chat.
La mole di innovazioni portata dal web 2.0 ha un notevole impatto sul marketing. La comunicazione tra utenti, e tra utenti e aziende, amplia le prospettive delle strategie pubblicitarie. Il fattore chiave del marketing 2.0 è l’integrazione del consumatore ad ogni livello del processo: il potenziale cliente non è più un mero ricevitore di informazione, bensì una figura attiva, che può essere anche coinvolta direttamente nel processo di elaborazione di contenuti promozionali. Inizia a farsi largo la figura del prosumer, termine coniato già nel 1980 da Alvin Toffler per indicare l’unione del producer e del consumer: il consumatore sta diventando anche un produttore, o comunque fornisce un proprio contributo alla produzione nel momento stesso in cui consuma. Si diffonde il mantra “customer is the king”, per indicare il nuovo approccio customer-oriented.
Sulla scia di questa svolta nasce l’inbound marketing – termine coniato nel 2005 – che rovescia il paradigma del marketing 1.0: dall’indistinto e invasivo lancio di messaggi pubblicitari in attesa di eventuali reazioni (push), si passa ad una metodologia basata sull’attirare l’attenzione dei potenziali consumatori, al fine di farli dirigere “spontaneamente” e consensualmente verso l’acquisto (pull). I consumatori diventano una risorsa in grado di creare valore, nonché una preziosa fonte di conoscenza per l’azienda. L’immagine seguente mostra le quattro fasi dell’inbound marketing.
1- Attirare i visitatori. In questa prima fase è fondamentale affidarsi alla creazione di contenuti di qualità elevata (ebook, video, articoli) in grado di attirare l’attenzione e stimolare l’interesse del maggior numero possibile di visitatori. I social media diventano presto strumenti fondamentali per diffondere tali contenuti: il numero di persone che possono essere raggiunte aumenta in modo considerevole. L’aggiornamento dei contenuti è un fattore chiave: all’aumento del dettaglio delle informazioni a disposizione su di un singolo utente corrisponderà un livello di personalizzazione sempre maggiore.
2- Trasformare i visitatori in potenziali clienti. Nella seconda fase l’obiettivo è trasformare i visitatori in potenziali clienti mediante la raccolta di informazioni di contatto, utili per instaurare una relazione diretta e duratura con l’azienda o con il brand. Gli utenti, di solito, sono restii a fornire spontaneamente tali informazioni, dunque la strategia migliore è basata sulla creazione di una landing page, cioè una pagina web dove il visitatore “atterra” dopo aver cliccato su un link inserito in un risultato di ricerca o in un contenuto pubblicitario. La cessione delle informazioni di contatto è subordinata all’elargizione gratuita di una sorta di premio, come l’utilizzo esclusivo di un software, un tutorial, un ebook. Questi dati sono preziosi anche nella definizione del profilo delle buyer personas.
3- Finalizzare il processo di acquisto. La terza fase punta a trasformare la manifestazione di interesse in un acquisto. Gli utenti non procedono all’acquisto subito dopo l’atterraggio sulla landing page, dunque si ricorre ad altri strumenti, come l’email – spesso inviate automaticamente tramite appositi software –, per proseguire nel processo di persuasione ad effettuare l’acquisto.
4- Convertire i consumatori in clienti fidelizzati e ambasciatori del brand. La quarta fase è la più difficile e ambiziosa: trasformare un cliente occasionale in un cliente fidelizzato, e dunque in un promotre del prodotto o del servizio. In questo processo è fondamentale aumentare il livello di soddisfazione del cliente richiedendo dei feedback e fornendo contenuti riservati.
Web 3.0 e marketing 3.0
Per comprendere al meglio questa nuova fase è necessario fare un passo indietro. Come abbiamo visto in precedenza, la seconda generazione del web ha messo a disposizione un’enorme mole di informazioni digitali, anche grazie al boom dei social media. Tuttavia, tali informazioni possono essere lette ma non comprese dai computer, poiché sono scritte con un linguaggio idoneo solo all’intelligenza umana. Manca un tassello: fare in modo che le informazioni siano personalizzate in modo dinamico per soddisfare le esigenze di ciascun utente, creando un “dialogo” tra le macchine molto simile a quello che avviene tra esseri umani nel mondo reale.
Ipotizziamo che un comune metta online i dati dei siti culturali e dei monumenti del suo territorio, e che il Ministero dei Beni culturali faccia altrettanto con informazioni dettagliate sui monumenti, i musei e i palazzi storici: combinare e mettere in comunicazione questi due dataset sarebbe di grande utilità per un turista che desidera pianificare un itinerario per la propria vacanza. L’idea alla base del web 3.0 – termine introdotto nel 2006 – mira proprio a colmare questa lacuna: collegare, integrare e analizzare le informazioni provenienti da diversi dataset per ottenere un nuovo e più efficiente flusso di informazioni. Se nella prima fase il web connette l’informazione e nella seconda connette le persone, nella terza la mission è connettere i saperi; se il focus del web 2.0 è la content creativity degli utenti, quello del web 3.0 è il collegamento dei database.
Il web 3.0 è conosciuto anche come web semantico, un’espressione coniata da Tim Berners-Lee per evidenziare la volontà di “aggiungere significato al web”: anche per questo viene considerato come un’estensione del web 2.0, e non un progetto ex novo. Il web semantico intende sorpassare la mera pubblicazione dei dati: punta a metterli in connessione tra loro in modo tale che i computer possano guidare automaticamente gli utenti verso le informazioni di cui hanno necessità. L’obiettivo è dare la possibilità alla persone di cercare, condividere e combinare le informazioni sul web in modo semplice, utile e immediato.
Per questo, un team dedicato del World Wide Web Consortium si occupa di definire nuovi linguaggi integrativi all’HTML – dunque, nuovi standard semantici – che consentono alle macchine di comprendere ed elaborare in maniera intelligente le informazioni del grande database globale che si va formando. Ogni frammento di informazione viene connesso ad un altro presente sul web.
Tali innovazioni hanno reso i computer in grado di “capire” il significato della richiesta inviata da un utente, riuscendo di conseguenza a restituire risultati di ricerca migliori, e individuando quali particolari informazioni, documenti o contenuti si riferiscano a quella specifica richiesta, oltre ai legami esistenti tra tutti gli output possibili. Dalle raccomandazioni per le vacanze al suggerimento di eventi di successo, sino alla pianificazione degli investimenti finanziari, grazie alla precisione degli algoritmi le ricerche sul web accompagnano la vita quotidiana. Ad esempio, se una persona sta cercando voli verso un determinato paese, una ricerca evoluta di tipo semantico restituirà non solo gli orari di tali tratte aeree, ma anche ulteriori dettagli sulle condizioni meteorologiche in quella data, nonché una mappa dettagliata del luogo di destinazione corredata da informazioni su hotel, ristoranti e luoghi di interesse; e, se richiesto, anche le migliori offerte per il noleggio di un’auto.
Il passaggio da un web “partecipativo” ad uno maggiormente “collaborativo” ha ulteriormente elevato il grado di interazione tra utenti e tra utenti e aziende. Il marketing 3.0, elaborato per la prima volta nel 2005, si fonda su una prospettiva values-oriented: i clienti, infatti, grazie al web 3.0, sono persone molto più informate rispetto al passato, e osservano attentamente il comportamento delle aziende e i valori che esse diffondono. Ne conseguono rilevanti cambiamenti socio-culturali ai quali il marketing non rimane indifferente: il consumatore, che già nella fase precedente era stato portato al centro della scena ed era stato indagato nel suo lato razionale, ora viene ascoltato anche nel suo lato più emozionale. Da questa visione muove il marketing 3.0: emotivo, culturale e spirituale. E, soprattutto, sempre più pensato per i dispositivi mobile: nel 2014, infatti, per la prima volta il traffico da mobile sorpassa quello da computer.
I consumatori entrano in contatto con una cultura globale e cosmopolita, ma senza rinunciare alle proprie radici locali. La spinta della globalizzazione, che annulla le distanze fisiche e geografiche; l’interconnessione costante, risultato di un’accessibilità a internet finalmente a basso costo e a velocità ragionevoli; il costo della tecnologia che si abbassa notevolmente e la rende più “democratica” (computer, smartphone sono offerti prezzi più accessibili); la diffusione di software gratuiti ed open source; sono fattori che consentono di avere una finestra sempre aperta sul mondo, ma sopratutto permettono agli individui di esprimere se stessi e di collaborare l’uno con l’altro. L’aumento esponenziale degli iscritti ai social media sbilancia il peso verso i consumatori, che vengono sempre più coinvolti nel processo di creazione di prodotti e servizi, e indagati nei loro bisogni e desideri. Tale sovraesposizione sui social media ha accentuato la necessità di autostima e incrementato la creatività e la voglia di affermarsi, che nella piramide di Maslow sono considerati bisogni primari:
Pertanto, i prodotti che vengono immessi sul mercato non devono soddisfare solo determinate caratteristiche tecniche, ma andare a toccare anche queste corde più creative e spirituali: in sostanza, devono offrire un’esperienza completa. Si sviluppa il marketing esperienziale, che si basa su quattro SEMs (Strategical Experiential Modules):
- Sense: esperienze sensoriali;
- Feel: esperienze affettive;
- Think: esperienze creativo-cognitive;
- Act: esperienze fisiche, comportamentali e legate allo stile di vita;
- Relate: esperienze socio-identitarie frutto della relazione con il gruppo o cultura
di riferimento.
Web 4.0 e marketing 4.0
La quarta fase dell’evoluzione del web è ancora in corso e, nell’ultimo anno, è stata fortemente condizionata dalla pandemia, che ha ulteriormente accelerato la digitalizzazione della vita quotidiana come delle dinamiche commerciali. L’e-commerce ha registrato una crescita imponente, e i social media si stanno progressivamente trasformando in negozi virtuali dove è sufficiente un click per concludere un acquisto, dando così inizio all’era del social commerce. Gli smartphone sono diventato, di fatto, delle telecamere sempre puntate sulle nostre vite. Una maggiore attenzione ai valori e all’etica – che come abbiamo visto era già un trend in atto nel marketing 3.0 – si è ulteriormente cristallizzata nella fase attuale, dove consapevolezza sociale ed attenzione al social purpose delle aziende sono diventate i pilastri di ogni strategia di marketing.
La peculiarità del web 4.0 è il suo essere, di fatto, la spina dorsale di un evento ben più ampio e pervasivo, la quarta rivoluzione industriale, che vede applicate al mondo imprenditoriale le innovazioni tecnologiche e digitali giunte a maturazione nel corso delle varie fasi evolutive della Rete. Il processo che caratterizza il web 4.0, infatti, è una simbiosi sempre più profonda tra uomo e macchina. Grazie alle sofisticate tecniche di machine learning, i computer sono in grado di “apprendere” dei comandi e di prendere decisioni in maniera ormai simile al cervello umano; l’intelligenza artificiale, unita al potenziamento senza precedenti delle infrastrutture e dei servizi cloud, sta cambiando la fisionomia delle catene di montaggio con implicazioni socio-economiche che sono oggetto di studio da parte delle istituzioni economiche nazionali e internazionali. È possibile individuare alcune tecnologie abilitanti che caratterizzano questa fase.
Internet of Things (IoT). Letteralmente, “internet delle cose”, espressione diventata di uso comune per indicare le rete di dispositivi e di accessori – non solo computer, ma anche elettrodomestici e macchinari industriali – connessi in modo pressoché permanente alla rete. Ogni cosa e luogo fisico può diventare smart, e dotarsi di una “identità elettronica intelligente”. I campi di applicabilità dell’Internet of Things è vastissimo: dai processo produttivi industriali alla logistica, dai trasporti all’efficienza energetica, sino all’assistenza remota.
Simulazione, realtà virtuale e realtà aumentata. IoT, Cloud e Big Data Analytics possono essere integrate per creare una simulazione – o anche una replica – digitale o virtuale di un processo o di un prodotto. Mediante la realtà virtuale è possibile realizzare il modello tridimensionale di un prodotto o di un processo per analizzarlo ex ante e agevolarne così la progettazione o l’apprendimento da parte del personale. La realtà aumentata, invece, ha la funzione di aggiungere ulteriori informazioni ad un oggetto fisico che esiste già nel mondo reale, mediante visori, smart glasses, tablet o smartphone.
Big Data. «I dati possono essere estratti, prelevati, processati, trasformati come fossero idrocarburi. Alimentano l’intera industria e i servizi come un tempo l’elettricità o oggi l’energia solare». Queste considerazioni di Stefano Cingolani nel libro “Il capitalismo buono” descrivono la centralità dei Big Data nel web 4.0. Si parla di Big Data quando la mole di dati trasmessi o ricevuti è talmente ampia da rendere necessaria la creazione di nuove tecnologie e di nuove metodologie – per estrapolare, gestire e processare le informazioni in un tempo ragionevoli. L’obiettivo della Big Data Analytics è estrarre conoscenza dai Big Data ed utilizzarla per perfezionare le attività decisionali, ricavandone così valore. I dati possono essere classificati in human generated (derivanti dalle piattaforme di social network e di blogging, dai siti di domande e risposte, dai siti di recensioni, dai portali di e-commerce), machine generated (da sorgenti quali sensori GPS, IoT, RFID, centrali di monitoraggio di eventi meteorologici, strumenti scientifici) e business generated (derivanti da contesti aziendali che possono includere anche le due categorie precedenti). Lo schema seguente rappresenta la versione aggiornata del modello di Laney che descrive in modo sintetico i Big Data.
L’analisi in tempo reale ed ex post dei Big Data ha rivoluzionato il digital marketing, poiché ha molteplici scopi:
- individuare le giuste parole chiave quando viene impostata una campagna su Google ADS, per capire quali sono i trend del momento ricercati dai clienti;
- definire delle heat maps per capire come si muovono gli utenti su un determinato sito e in quali zone si concentrano i click;
- attuare strategie di re-targeting per concentrare gli investimenti pubblicitari su utenti che hanno già manifestato interesse per un determinato prodotto.
In particolare, i Big Data sono fondamentali per l’attività di social listening, che parte da una considerazione molto semplice: ogni utente connesso è, di fatto, una fonte di dati. Le aziende che desiderano sapere in tempo reale cosa pensano gli utenti del proprio brand o prodotto possono ora svolgere attività di social listening, cioè di costante ascolto e monitoraggio del web per interpretare il sentiment degli utenti, adattando di conseguenza le proprie strategie di marketing. Un’attività di questo tipo, senza le evoluzioni del web 4.0, non sarebbe mai stata possibile.